Wes Anderson : mondo naif

di playgroundfiles

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Non è mia intenzione fare recensioni di film appena usciti anche perchè non è questa la mission del blog ma non posso non parlare di Grand Budapest Hotel .

Tanto per cominciare devo dire che Wes Anderson è diventato una certezza per quello che dovrebbe essere un regista di cinema: Altamente riconoscibile in fatto di stile, estremamente concentrato nel curare gli aspetti della propria estetica. L’uscita di un suo film è una gioia per chiunque ricerchi lo stupore innocente e la bellezza di un cinema fatto come si faceva una volta pur essendo assolutamente moderno.
Grand Budapest Hotel è una velocissima matrioska temporale che va subito a dilatarsi per tutto il film nella parte centrale della storia ambientata in un ideale luogo di un altrettanto ideale periodo storico corrispondente all’inizio della guerra mondiale sullo sfondo di una poetica mitteleuropa. Il predecessore Moonrise kingdom era interamente concepito attorno al microcosmo di una isola inesistente del New England dove la fuga d’amore di due ragazzini è il pretesto per rimettere in scena un immaginario estetico in bilico tra i colori degli anni ’60 e le scenografie dipinte dei teatri delle scuole. Questa volta pero’ il quadro si allarga e fa correre i pittoreschi personaggi tra enormi hotel, prigioni angoscianti e inarrivabili vette innevate.
Gli angoli angusti, il legno pulito delle stanze costruite con cura e spazi magici evocano facilmente scenari di favole naif e in qualche modo gli stessi mondi concepiti dagli stop-motion di Svankmajer.

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Grand Budapest Hotel è una sorta di giallo fatto di fughe, furti e inseguimenti messo in scena come in un enorme teatro di burattini dove scenografie dipinte e ambienti di cartapesta sono l’elemento estetico caratterizzante il cinema positivo di Anderson capace di rievocare lo stupore di bambino nell’adulto spettatore capace di distinguere il dramma e la farsa indistintamente mescolati nel mondo naif disegnato da Anderson. Ed è proprio un espressionismo naif quello che viene dipinto nei cieli colorati e nelle luci tremolanti dei primi piani da film muto. Tutto questo nonostante in Grand Budapest Hotel si rincorrano dipinti di Klimt e Schiele.
Questa volta la storia necessita di villain, solitamente assenti nei lavori di Anderson , ma la capacità di sospendere il giudizio rinchiudendo i protagonisti in un mondo parallelo fatto di ironia e fantasia rende anche i cattivi in qualche modo sottoponibili al perdono.
Certo, forse quello di Anderson è un cinema vagamente hipster ma è anche un cinema del quale sentire la mancanza nel momento in cui iniziano i titoli di coda.

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